Hays, multinazionale di origine britannica specializzata nel reclutamento di personale, ha recentemente pubblicato la sua Salary Guide 2024. Nell’indagine, di cui abbiamo già parlato su queste pagine, si vanno a identificare una serie di trend del mercato del lavoro per la fascia manageriale. È emerso un contrasto tra la crescita della soddisfazione per il lavoro svolto al momento e una scontentezza per la situazione economica e le prospettive di carriera. Inoltre, crescita professionale, benefit e il work-life balance rivestono oggi un ruolo sempre più importante nella scelta di un nuovo posto di lavoro. Per poter però capire meglio le dinamiche dietro ai numeri raccolti, abbiamo proposto un’intervista a Fabiano Peveralli, Director di Hays Italia.
Buongiorno dottor Peveralli, e grazie per averci concesso questa intervista. Inizierei parlando di lei; potrebbe presentarsi ai nostri lettori?
Lavoro in Hays dal 2010. Prima di arrivare in azienda, mi sono occupato di consulenza aziendale e sono stato responsabile vendite in un’altra società di servizi. In Hays Italia mi sono sempre occupato dei mercati industriali e, più recentemente, di quello che Hays chiama “business tech“; questo significa sia la ricerca di profili che hanno a che fare con il mondo IT, sia la consulenza informatica e tecnologica. Quindi, sempre di più ci occupiamo per le aziende di fornire delle soluzioni “time and material” finalizzate allo sviluppo di alcuni stack tecnologici.
Uno degli elementi che emergono dalla vostra indagine è la difficoltà cronica di reperire personale con un livello di skill elevato. Quale è la dinamica per il settore IT? Ci sono altri settori che sono diventati più attrattivi e stanno rubando i profili migliori; oppure, più semplicemente, c’è scarsità di offerta?
La difficoltà nel trovare le competenze è oggi legata alla divaricazione crescente tra la numerosità dei profili con un certo tipo di competenze e la richiesta. La numerosità dei profili è costante, la richiesta invece aumenta in modo costante ogni anno.
Quindi, a vostra sensibilità, è un problema di domanda e offerta di mercato?
Sì, di domanda e offerta, ma anche di produzione da un punto di vista accademico di certe competenze. Poi, ovviamente, si può dare un taglio diverso e estendere questo discorso in vari modi. Per semplificare, le università non riescono da sole a produrre, in termini quantitativi e qualitativi, quelle competenze di alto profilo di cui si parlava. Questo perché a queste competenze si accede anche attraverso un’esperienza pluriennale di lavoro.
Parallelamente al mercato, le aziende hanno sempre più bisogno di questo tipo di competenze; quindi, come la definiscono gli inglesi, questa è una situazione di shortage.
Le università si confrontano spesso con le parti sociali (aziende) per identificare profili interessanti per il mercato del lavoro. Potrebbe quindi essere più utile per loro, almeno relativamente a certi profili, parlare con degli specialisti di risorse umane?
Hanno finalità e scopi diversi. Nel primo caso, lo scopo può essere quello di identificare il percorso che rende più collocabili le persone nel breve termine. Nel secondo caso, potrebbe essere simile allo scopo di questa intervista: cercare di capire come il mercato del lavoro evolve nel medio e lungo termine.
Un soggetto, come un istituto di formazione o un istituto accademico, fa benissimo a parlare con le aziende a patto che sappia che questa è una conversazione, se vogliamo, un po’ scolastica. L’istituto deve collocare quantitativamente una serie di persone sul breve termine, quindi si tratta di stage o di persone con poca esperienza. Nel momento in cui si parla di competenze di alto livello, il discorso diventa più longitudinale e si riferisce comunque a persone che hanno almeno 5-7 anni di esperienza. Si tratta di sezioni del mercato che si muovono parallelamente e poi si intersecano, però entrambe le azioni hanno senso.
Vorrei parlare ora della tanto discussa Gen-Z, che sembra proporre una rottura con il modello di lavoro della generazione precedente. Ad esempio, valutare molto di più il bilanciamento vita-lavoro e la sostenibilità dell’azienda. Che effetto ha questa tendenza sulla situazione del mercato?
È difficile dare una risposta. Parlare dei giovani è sempre molto difficile perché all’interno di questo insieme ci sono persone diverse. Il tema della qualità della vita e quindi del rapporto tra la vita lavorativa e la vita personale è senza dubbio un tema molto sentito dalle persone più giovani, così come la flessibilità. Ormai questi sono dei temi ineludibili anche per persone più esperte. Sul fatto del lavorare in aziende green, questo secondo me è un discorso molto complesso che si rischia facilmente di banalizzare.
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È vero che le ultime generazioni sono attratte da aziende che più rispecchiano determinati valori. La retribuzione continua a essere un asset importante, ma c’è anche dell’altro. Personalmente, sono portato a pensare che, per persone che si vogliono collocare in ambito IT, l’orientamento all’innovazione a volte può essere più importante del green. Le persone che operano sul mondo tech sono molto sensibili a quanta componente tecnologica c’è nei progetti in cui partecipano. Se diamo un’azienda green a uno sviluppatore senza però fornirgli un contenuto tecnologico interessante non riusciremo lo stesso a trattenerlo.
Diciamo che magari l’idea della sostenibilità è più un cappello generale e poi, se quando andiamo a indagare le verticalità i driver possono essere un po’ differenti; ognuna ha le sue specifiche. Nel caso del tech, l’innovazione gioca sicuramente un ruolo molto importante.
Passiamo a parlare dei millennials, altra generazione critica che si è inserita nel mondo del lavoro in un momento di crisi economica. In termini generali sono un po’ meno propensi a muoversi e si accontentano di più dal punto di vista salariale. Queste attitudini avuto un ruolo nel determinare la situazione attuale?
La ragione per cui le retribuzioni nel segmento IT sono basse è che, fino a poco tempo fa, non era necessario sviluppare delle competenze distintive. Qualche anno fa, per esempio, la tipologia di figure che le aziende e il mercato in generale ricercavano era diversa.
Negli ultimi anni c’è stata una grandissima accelerazione, legata anche al fatto che quasi tutte le aziende sono state costrette ad adottare modelli di lavoro remoto. Questo ha avuto un impatto non solo sull’esperienza del lavoratore ma anche sulla tipologia di progetti che ogni azienda si è trovata a dover gestire. Molto banalmente, il fatto di dover convertire un’intera architettura aziendale per poter permettere alle persone di lavorare dovunque ha costretto le aziende a fare degli investimenti su specifici software e servizi, sulla gestione della sicurezza, e sulla trasmissione delle informazioni.
Quindi, secondo me, le basse retribuzioni, ancora una volta, non hanno a che vedere con la crisi. Sono legate a quanta esperienza ha una persona e a quante competenze reali possiede. Chi guadagnava poco prima del COVID guadagna poco anche ora. Quello che però è cambiato è che, rispetto a 3-4 anni fa, si è osservata una forte accelerazione su alcuni stack tecnologici e su alcuni verticali, e su questi verticali si assiste a una forte accelerazione delle retribuzioni.
Il problema è che, se vogliamo sintetizzare, chi sa fare certe cose e chi ha un certo tipo di esperienza su alcuni progetti guadagna bene. Chi non sa fare alcune cose o ha un’esperienza molto classica guadagnava poco prima e guadagnerà poco anche adesso. Forse, da questo punto di vista, il mondo IT è stato anche uno dei più resilienti. Le aziende, in modo molto concreto, potevano non avere la necessità di reclutare un controller o un responsabile di produzione ma, come avevano prima la necessità di reclutare alcune figure IT specifiche, dopo il COVID ne avevano ancora più bisogno. Perché si dovevano occupare anche di rendere possibili ai colleghi delle modalità di lavoro fino a pochi anni fa inesplorate.
Il mercato del lavoro sta subendo una forte smaterializzazione, questo è il punto chiave. Il mercato IT è un mercato molto smaterializzato. Lo era prima e lo diventerà sempre di più. Essendomi occupato anche di industria, posso dire che sono situazioni molto diverse. L’IT ha delle logiche di funzionamento diverse ed è difficile riconoscere dei momenti di cesura come possono essere pre-COVID e post-COVID.
Oggi noi assistiamo al fenomeno di alcune multinazionali che, per accaparrarsi le persone migliori, giocano con dei RAL fuori scala e fanno selezione con il personale già assunto. Questo funziona sul mercato americano, ma non su quello italiano dove c’è una contrattualizzazione radicalmente diversa. Tuttavia, il modello viene imposto dalla corporate anche alle filiali nazionali. Avete rilevato questo fenomeno? Rischia di generare un contraccolpo sul lungo periodo?
Sinceramente, no. Perché c’è da tenere presente che le multinazionali operano con delle matrici retributive definite. Quindi, per quanto riguarda i grandi soggetti internazionali, la questione non si pone. Per quanto riguarda invece le aziende più piccole, queste sono più libere di aggredirei professionisti più validi con retribuzioni più alte. Tuttavia, il fatto di pagare molto un neolaureato premia e riconosce le sue competenze. Quindi, se c’è una persona che ha tre anni di esperienza ma vanta un’esperienza fantastica su uno stack tecnologico, l’azienda può decidere di pagarla di più. Tuttavia, non ci sono poi tutte queste brutture che creano un divario retributivo a favore dei neoassunti
Quindi non l’avete rilevato?
No, anzi, a volte è difficile spiegare a un’azienda che il budget che ha allocato per una posizione è inadeguato. Per questo motivo capita più spesso il contrario. Ecco perché è una situazione che non rileviamo.
Comunque, questo discorso, se ha validità, può valere per alcune figure apicali. Ma per i neolaureati e per la maggior parte dei professionisti questo non accade. Forse la cosa più difficile è quella di spiegare ai clienti, sia piccoli che grandi, che il budget che hanno allocato per alcune ricerche è inadeguato. Questa è l’operazione più difficile per una società di consulenza come la nostra: educare i clienti.
Rimaniamo sulla forbice retributiva. Abbiamo già visto in alcuni momenti storici, come la bolla del doc-com e gli apici di bioinformatica e blockchain; che chi aveva certe competenze guadagnava nettamente più si altri. Oggi che ne è di chi si occupa di machine learning e data analysis? È una nuova ondata destinata a lasciare un segno nel mercato del lavoro?
Innanzitutto [Peveralli scherza con noi, n.d.r], per dare una risposta definitiva dovremo rivederci tra tre o cinque anni.
Non è così dannosa. Queste ondate speculative, perché è di questo che sta chiedendo, riflettono le necessità del mercato e forse non dovremmo giudicarle. Non so se farà danni o meno, però in questo momento molti soggetti finanziari, industriali, della pubblica amministrazione e tutti i principali soggetti attivi sul mercato economico sono interessati ad specifiche tecnologie. Inevitabilmente, questo genera anche delle distorsioni, se vogliamo usare questa parola.
Però, credo che sempre di più avremo a che fare con dei cicli economici molto rapidi; ed è per questo che a volte è un po’ difficile rispondere a queste domande. Perché le stesse domande fatte su aziende, su mercati diversi magari 20-30 anni fa, potevano permetterci una risposta più lineare. Adesso l’andamento dei mercati è molto frazionato, molto veloce e ci sono dei cicli economici molto instabili che creano e consumano tutto. Quindi, può darsi che fra un anno e mezzo la bolla sarà già scoppiata.
Tuttavia, penso che ormai il mercato abbia creato un proprio sistema immunitario; nel senso che ormai ci siamo un po’ più abituati. Inoltre, la rivoluzione del dot-com, a cui si accennava prima, era una rivoluzione totale; perché si trattava di un’irruzione brusca in un mercato più tradizionale. Adesso siamo ormai in piena rivoluzione tecnologica quindi l’impatto è ridotto. Forse la cosa di cui oggi si parla di più è l’intelligenza artificiale, ma più che per un tema tecnologico, per un tema di valori.
Hays è specializzata nelle fasce manageriali. Come si sta evolvendo la figura professionale del manager in questi anni?
È cambiata perché c’è una fortissima pressione all’efficienza. Quindi, qualche anno fa il manager faceva semplicemente il manager, mentre oggi deve essere una persona che gestisce altre persone o che gestisce dei business. Per questo motivo, deve avere una componente operativa importante e deve essere una persona capace di costruire delle relazioni.
La visione anni Ottanta del manager era quella cinematografica fredda e spietata, che non esiste più. Non esiste più perché non è sopravvissuta; oggi devi sapere parlare e devi sapere ascoltare. Come abbiamo detto prima, parlando delle generazioni più giovani, se una persona che gestisce altre persone e gestisce business non fosse in grado di parlare con le persone in questo momento, sarebbe totalmente inutile per un’azienda.
Infine, che cosa aiuta di più un manager a migliorarsi e a sopravvivere? Due cose secondo me: la cura delle relazioni e il fatto di avere ancora un contatto con il business.
Quindi sta diventando una figura più ibrida?
Più completa e più commerciale; se la vogliamo più ibrida, ma anche più creativa, è un po’ meno secondo copione o banale. Non so se ricordate la vecchia pubblicità del dopo barba “per l’uomo che non deve chieder mai”. L’uomo che non deve chiedere mai è una macchietta, come il manager che non deve chiedere mai. La visione del manager testosteronico, muscolare che sa tutto, che può tutto, che autorizza non esiste più nelle aziende. Nelle piccole e medie imprese non esiste più e i contesti internazionali sono progettati per costruire le decisioni attraverso le relazioni. Non c’è più il manager che decide “si fa così, punto”, come usava in certe vecchie aziende.
La redazione ringrazia Fabiano Peveralli per averci concesso questa intervista e invita i lettori interessati a prendere visione della Salary Guide 2024 sul sito web di Hays.