Parlare di Red Hat è sempre paradossalmente molto difficile, perché tutti conoscono l’azienda ma molti meno sanno esattamente di cosa si occupa. Per molti, Red Hat è ancora quella realtà che si occupa di una distribuzione di Linux mentre, in verità, è una multinazionale che si propone prodotti, servizi e consulenza in ambito enterprise. e soprattutto cloud.
Red Hat e AWS oggi lavorano a stretto contatto su un sacco di fronti. Per cui, in occasione dell’AWS Summit di Milano, abbiamo chiesto a Morena Maci, Sr. Partner Account Manager di Red Hat Italia, di raccontare sulle nostre pagine che tipo di azienda è esattamente Red Hat.
Potrebbe presentarsi ai nostri lettori? Ci parli di lei e del percorso professionale che l’ha portata in Red Hat
Nasco con un background tecnico e anche un po’ pionieristico. E, devo dire, in questo momento di women community mi ci ritrovo. Ho iniziato a fare il tecnico a venti anni tra l’incredulità di molti. Ho lavorato nel mondo delle prime reti per poi assumere una figura di prevendita e successivamente transitare, una quindicina di anni fa, nel mondo della distribuzione in qualità di brand manager di Red Hat. Già allora mi trovavo di fronte al problema di spiegare alle aziende perché fosse necessario comprare qualcosa che, di fatto, è open source. A quel punto, però, mi sono legata tantissimo al brand e, alla fine, sono entrata in Red Hat.
Una volta in Red Had, per nove anni ho seguito i distributori mentre si andava creando il primo ecosistema. Per un paio d’anni ho avuto la responsabilità del settore vendite per il segmento di mercato delle PMI (che poi era il 60% del mercato sul territorio italiano). Nel frattempo, ho anche avviato il processo cloud e abbiamo iniziato a lavorare con i cloud provider; prima locali e poi internazionali. Da li la cosa è, ovviamente, evoluta e oggi sono anche il partner manager dedicato per AWS. Il mio ruolo è in parte anche a livello EMEA, in quanto mi devo occupare di spingere perché la proposizione congiunta tra Red Hat e AWS (chiamata anche ROSA, Red Hat OpenShift Service on AWS) sia ampliata il più possibile.
Che tipo di azienda è Red Hat? Molti pensano a Linux, ma sappiamo che c’è molto di più. Di cosa vi occupate esattamente?
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Di fatto, l’unica cosa che noi non facciamo è l’hardware; tutto il resto è coperto; dalle applicazioni ai dati. Tuttavia, non è un concetto sbagliato quello di identificarci con un’azienda che si occupa di Linux. Questo perché il Linux della Red Hat di oggi è il fondamento su cui poggiano tutte le altre nostre tecnologie.
Le tecnologie principali sui cui oggi stiamo spingendo molto sono tre: il mondo della containerizzazione, il cloud ibrido e l’automazione. Tutte tecnologie che alla base usano anche Linux come piattaforma. Poi, ovviamente, le tecnologie che proponiamo sono tutte open e standard al punto che possono essere agganciate anche a qualunque software di terze parti.
Il nostro concetto di ibrido non si applica solo al cloud. Per noi essere ibridi vuoi dire essere standard e aperti verso chiunque. Questo ci permette, ad esempio, di essere all’interno dei sistemi di VMWare. Oppure possiamo pensare a OpenShift: una soluzione di containerizzazione in cloud, ma che per noi è anche una piattaforma di sviluppo. Infatti, OpenShift è pervasivo su tutte le soluzioni che noi abbiamo a portfolio e lo si può trovare ovunque.
Infine, che le nostre soluzioni siano on premise dal cliente, in hosting da un partner o su un cloud pubblico o privato che sia, non cambia per noi la sostanza. E questo è un altro aspetto fondamentale perché garantiamo di essere agnostici dall’infrastruttura e quindi non facciamo vendor lock-in. Un nostro cliente è libero di avere le applicazioni sul suo data center o di portarle in cloud, eventualmente cambiando provider ad un certo punto. L’esperienza per lui sarà sempre la stessa, perché ha scelto una tecnologia che non lo vincola a uno specifico ambiente.
La vostra scelta di non fare hardware, quanto ha influito nella filosofia generale di Red Hat?
Quando si dice “a parte l’hardware” ci si riferisce ovviamente ai sistemi server. Nonostante questo, ci sono tanti software vendor che agganciano il loro software a un asset. Questo asset può essere un firewall piuttosto che un sistema di storage.
Red Hat nasce da un modello detto di open community. Quindi, codice aperto e pubblico dove, in realtà, la nostra azienda è uno dei contributori all’interno della community. Questo vuol dire che noi selezioniamo dei progetti e li rendiamo enterprise-ready. Fare hardware significherebbe avere un impianto totalmente diverso e non è nelle nostre corde. Quello che a noi interessa è, invece, che tutto l’hardware esistente possa ospitare le nostre soluzioni software.
In sintesi, il fatto di non fare hardware è proprio quello che ci ha permesso di concentrarci cosi tanto sulla parte della compatibilità. Il pregio che sentiamo di meritarci è quello di aver portato l’open source dal mondo hobbistico a quello enterprise. Gli sviluppatori indipendenti esistono ancora, sono i principali contributori della community e spesso sono proprio loro a portare innovazione. Il lavoro che noi facciamo con loro è rendere un’idea geniale utilizzabile anche sul server di una banca o di una pubblica amministrazione. Il risultato finale è che mentre prima l’open source, in alcuni contesti (soprattutto nella pubblica amministrazione), veniva scelto per una questione di riduzione dei costi, oggi è considerato uno standard di fatto e un asset, alla stregua delle soluzioni proprietarie di altre aziende.
Il cloud ibrido nella sua forma attuale è un paradigma che si è affacciato al mercato da poco più di un anno e Red Hat, con OpenShift, lo ha cavalcato fin dall’inizio. Ci può fare qualche commento a riguardo?
Come abbiamo sostanzialmente già detto, per noi “ibrido” vuol dire che ci sono una serie di parti dell’infrastruttura che devono convergere. Questo vuol dire anche che gli elementi on-premise dal cliente devono essere in grado di parlare con quelli in cloud e viceversa. L’ambiente di ogni cliente, quindi, può essere visto come un’infrastruttura ibrida. OpenShift, visto come framework di sviluppo e modernizzazione, viene usato per la riscrittura delle applicazioni in cloud. OpenShift, però, nella sua forma ibrida, ci permette di fare anche un’altra cosa: prendere un servizio legacy, fatto con tecnologie non moderne, inserirlo in un container e renderlo fruibile in cloud. Anche questo fa parte del passaggio al cloud ibrido come lo intendiamo noi.
Recentemente abbiamo rivisto la struttura di OpenShift e presto ne rilasceremo una versione potenziata tramite un motore di Intelligenza Artificiale (AI). Allo stesso modo, anche il motore di automation verrà arricchito con l’aggiunte di AI. L’introduzione dell’AI è secondo noi una opportunità interessante per automatizzare tutte quelle operazioni ripetitive che oggi vengono effettuate manualmente. Questo può permette alle aziende di liberare delle risorse umane che possono essere dedicate a nuovi progetti.
Per riassumere, OpenShift, come pure le altre tecnologie che abbiamo menzionato, non servono a risolvere un problema puntuale quanto a coprire a 360 gradi tanti aspetti dell’IT.
E, sempre riguardo il cloud ibrido, che rapporto avete costruito con AWS ?
Anche con AWS possiamo dire di essere stati pionieri nello spirito open. Il rapporto con AWS nasce nel 2008 con la nostra esigenza di avere una piattaforma da far provare ai clienti. Quello che abbiamo fatto è stato di chiedere a loro, quando ancora non erano un cloud provider, di metterci a disposizione i loro data center. La nostra prima versione di OpenShift, che fornivamo on-demand, usava la loro infrastruttura.
Oggi, le soluzioni Red Hat sono installate ovunque, Personalmente, però, penso che AWS sia l’idea stessa del cloud provider. C’è una cosa che per noi differenzia AWS da altri cloud provider: il fatto che abbiamo anche un feeling personale. Con loro la partnership è estremamente forte tant’è vero che oggi, per le nostre offerte, parliamo di ROSA (Red hat, OpenShift, Aws), che altro non è che OpenShift completamente managed su infrastruttura AWS e supportato da entrambe le aziende. In altre parole, loro codice, ingegnerizzato da noi e supportato insieme.
In chiusura guardiamo al futuro: quali sono secondo lei le nuove sfide che il cloud ci porrà di fronte?
A mia opinione, il cloud è sicuramente il futuro e in particolare il modello di cloud ibrido. C’è stata una spinta dovuta a una serie di eventi che lo ha fatto veramente crescere; anche se magari in maniera non sempre consapevole. Quello che io vedo ora è una maggior conoscenza del cloud accompagnata da maggiori competenze. I clienti hanno capito e sperimentato, e in alcuni casi anche deciso che non è la strada che fa per loro.
Nei prossimi anni vedo un consolidamento e un bilanciamento per quello che è l’andamento del cloud. Ci sono degli aspetti importanti sui quali si sta e si deve continuare a lavorare. Ad esempio, il rafforzamento dei meccanismi di Intelligenza Artificiale, l’aspetto della sicurezza, l’aspetto legislativo e quello regolamentatorio.
Un altro aspetto è che nessun vendor e nessun cliente può fare a meno dell’ecosistema di contorno. Perché il modello che si andrà ad affermare è un modello ecosystem-driven. Dobbiamo lavorare con i partner che sviluppano le soluzioni da usare in cloud creando un legame tra tutti gli attori e, anche qui, un modello di business ibrido.
La nostra redazione ringrazia molto Morena Maci per l’interessante discussione e per il grande numero di spunti di riflessione che ci ha proposto. L’appuntamento con Red Hat è, ovviamente, per l’AWS Summit del 2024.