Riccardo Porro, Chief Operations Officer di Cariplo Factory, analizza la situazione economica post pandemia e osserva quali siano gli ostacoli e le strade da percorrere per un nuovo sviluppo economico.
Il pensiero di Riccardo Porro, Chief Operations Officer di Cariplo Factory
La pandemia da Coronavirus ha messo a nudo la fragilità del nostro modello di sviluppo economico rendendo evidenti due facce della stessa medaglia: da un lato, l’evidenza che nessun settore è abbastanza solido per resistere a un cambiamento radicale senza un processo di continua innovazione. Dall’altro, la necessità di ripensare all’attuale modello economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Il modello di sviluppo a cui siamo abituati, ovvero quello lineare – fondato sull’estrazione di materie prime, sulla produzione ed il consumo di massa e sullo smaltimento degli scarti una volta raggiunta la fine della vita del prodotto – ha mostrato molte crepe specialmente negli ultimi mesi. Un caso eclatante è quello del fashion, comparto strategico per il nostro Paese: dopo aver fatto per anni offshoring verso l’Asia, la pandemia ha bloccato intere filiere con la semplice chiusura delle frontiere. Solo chi ha saputo riadattare il proprio modello di sviluppo ha mostrato la resilienza sufficiente a fronteggiare la crisi, gli altri sono andati in apnea. In questo senso un ottimo esempio è quello della filiera alimentare, che si è salvata grazie a un sistema decentralizzato, al ricorso a modelli di economia di prossimità e al canale digitale dell’e-commerce.
Ora più che mai, è indispensabile ripensare il ciclo economico in termini di economia circolare: un sistema pensato per potersi rigenerare, fondato sulla valorizzazione degli scarti, l’estensione del ciclo di vita dei prodotti, la condivisione delle risorse, l’impiego di materie prime da riciclo e di energia da fonti rinnovabili. Ma un cambiamento di rotta di questa portata, una trasformazione così radicale, non può gravare sulle spalle delle singole imprese. Servono, da un lato, sostegno a livello economico e finanziario, e dall’altro, la capacità di portare il paradigma dell’open innovation anche nella circular economy: vale a dire, fare in modo che le imprese che hanno bisogno di rinnovarsi per andare verso la circular economy possano entrare in contatto con delle realtà in grado di fornire loro gli strumenti per farlo.
L’Italia è in cima alle classifiche della green economy, ma rischia di perdere il vantaggio
L’economia circolare ha la capacità di creare filiere multidisciplinari integrate nelle aree locali e di restituire, sempre localmente, risorse ambientali, creando utile nel processo. Caratteristiche che la rendono uno dei pilastri del Green New Deal – la “tabella di marcia” lanciata nel 2019 dall’Unione Europea per rendere sostenibile la sua economia. E non potrebbe essere altrimenti dal momento che il sistema stesso si basa sulla scomparsa del concetto del rifiuto trasformando gli scarti in elementi produttivi.
A frenare è ancora una volta la burocrazia
La mancanza di una normativa centralizzata genera inevitabilmente grovigli burocratici che allungano i tempi e spesso finiscono per dissuadere le imprese dall’intraprendere la strada della circolarità. Un caso emblematico è quello di Fater, l’azienda leader in Italia nei prodotti assorbenti per la persona (suoi i marchi Pampers e Lines). Per riuscire a recuperare pannolini e assorbenti usati, con l’obiettivo di rimettere la cellulosa nel ciclo produttivo, Fater ha investito milioni di euro in tecnologia. Ma ha poi ha dovuto aspettare quasi 7 anni per il via libera amministrativo.
Investimenti in open innovation per trasformare le filiere produttive
Le risorse economiche così raccolte andrebbero poi catalizzate per avviare progetti di innovazione di largo respiro, attivando i capi filiera delle principali industrie italiane. Solo così si può pensare di riuscire a trasformare un intero ecosistema verso un modello virtuoso di recupero di materiali, capace di creare occupazione sul territorio sostenendo la ripresa economica.
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La chiave di volta sarebbero investimenti nel campo dell’innovazione: dotato del giusto sostegno, il capo filiera avrebbe la forza di sostenere il cambiamento, fidelizzando la propria filiera e rendendola più solida. Le aziende hanno ormai compreso che non si tratta di costi, ma di investimenti premiati dalla Borsa, tuttavia a mancare sono ancora le competenze per governare il cambiamento. Ma queste si possono acquisire attraverso l’open innovation, che abilita l’accesso alle idee esterne, in particolare quelle sviluppate da startup innovative. Perché non si possono avere al proprio interno tutti gli strumenti per cambiare. Serve allora, come detto all’inizio, la capacità di portare il paradigma dell’open innovation anche nella circular economy, perché nessuno è in grado di affrontare da solo la complessità dei temi e delle frontiere che portano cambiamenti del genere.